All’inizio degli anni Settanta, dopo i successi di El topo e La montagna sacra, la popolarità del cileno Alejandro Jodorowsky come regista è probabilmente allo zenit. Il produttore francese Jean Paul Gibon vuole lavorare con lui, si offre di produrgli qualsiasi cosa, e Jodorowsky sceglie Dune: decide di adattare il cult della narrativa fantascientifica di Frank Herbert.

È l’inizio dell’Odissea professionale e psicologica che porta regista e produttore a costruire nei dettagli più minuziosi sceneggiatura e storyboard di un film che non verrà mai girato: una piccola ma vorticosa spirale di ossessione mentale che la razionalità hollywoodiana – attenta all’epica ma anche al box office – dirà di apprezzare ma di non poter produrre.

Mentre alla Mostra di Venezia passa il nuovo e glam Dune di Villeneuve, dal 6 settembre sbarca anche nelle sale italiane, con otto anni di ritardo, il documentario di Frank Pavich che racconta l’infelice impresa artistica di Jodorowsky e Gibon. Una ricostruzione affidata alla voce dei due protagonisti, ma anche a un corollario di personalità artistiche a vario titolo coinvolte nel processo di pre-produzione. Dal figlio del regista, Brontis, ingaggiato giovanissimo per la parte del piccolo Paul, a Diane O’Bannon, vedova dello sceneggiatore Dan O’Bannon, fino al critico Devin Faraci e ad Amanda Lear, che all’epoca era fidanzata con Salvador Dalí: Jodorowsky lo voleva a tutti i costi nel ruolo dell’Imperatore, e promise alla Lear il ruolo della principessa Irulan.

In un inglese spagnoleggiante Alejandro Jodorowsky ripercorre cronologicamente le fasi di una sorta di epopea che per lui divenne una droga (del resto, nella sua testa Dune doveva procurare al pubblico gli stessi effetti allucinogeni dell’LSD), forse perchè attratto anche dalle sirene di Hollywood e dalla possibilità di raggiungere un pubblico mainstream passando finalmente dalla porta principale. L’impresa, del resto, era titanica: il regista volle David Carradine per interpretare il duca Leto, Mick Jagger per la parte di Feyd-Rautha e addirittura Orson Welles come barone Harkonnen. Dalí, poi, aspirava a diventare l’attore più pagato del mondo e Jean Paul Gibon escogitò il modo di pagarlo a minuti (centomila dollari al minuto).

Quanto, in questo documentario, Jodorowsky romanzi e ricami sul suo viscerale desiderio di adattare Dune e sulla frustrazione per il fallimento non è dato sapere. Affabulatore e grande interprete: racconta o reinterpreta? La magia del mito sta anche in questo.

Jodorowsky’s Dune – soprattutto nel suo procedere cronologico – rischia l’effetto didascalico soprattutto nella sua parte centrale, mentre illustra il succedersi degli incontri e delle scelte che strutturano il gigantesco storyboard capace di mettere su carta le immagini mentali del regista. Ma tempi e dettagli del film sono cuciti con precisione chirurgica.

Sono naturalmente soprattutto economici gli scogli che fanno naufragare definitivamente il progetto. Fra le altre pazzie, a Welles fu promesso il cuoco del suo ristorante preferito ogni giorno sul set. Comprensibile che la Warner impallidì, anche perché il film di Jodorowsky e Gibon non temeva di sforare le dieci ore di durata.

Il documentario però ha il merito di non indulgere allo spirito nostalgico. Sceneggiatura e storyboard – che Jean Paul Gibon fece girare con cura capillare fra gli Studios – gettarono semi che riemersero poi visivamente in altri film, da I predatori dell’arca perduta di Spielberg a Contact di Zemeckis. Soprattutto, Jodorowsky non si intimidisce nel parlare della sua reazione quando fu David Lynch, circa dieci anni dopo, a portare Dune sullo schermo. È quasi divertito mentre racconta che si fece trascinare al cinema per vederlo, pronto a piangere, ma che a poco a poco si riprese: il film era bruttissimo. Ironica e onesta ammissione di umanità.



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